lunedì 25 novembre 2013

23 novembre 2013: Noi stiamo con i Marò


Sabato 23 novembre il Comitato Trieste Pro Patria si è recato a Roma orgnizzando un pullman, per partecipare alla marcia a sostegno dei due marò trattenuti in India da circa 20 mesi. La manifestazione era organizzata dalle famiglie Girone e Latorre, al fine di richiamare l'attenzione sulla vicenda, i cui iniziali clamori paiono sopiti, nel disinteresse della stampa e nel silenzio delle autorità. Contemporaneamente, una marcia è stata organizzata anche a Trieste dalle associazioni d'arma.
Sin dall'inizio della manifestazione, la nostra presenza si è fatta notare, grazie al nostro striscione, alle bandiere, al nostro gruppo compatto ed allegro; molte persone sono venute a fotografarci ed a salutarci cordialmente, tra cui il giornalista Toni Capuozzo, lasciando trasparire la simpatia di cui gode Trieste in buona parte d'Italia, rinnovando quella fama di “città più italiana d'Italia”.
Il nostro pullman ha portato da Trieste un contributo di vicinanza a due uomini che stanno incarnando il vero senso di Patria, con il loro contegno fiero e responsabile. Una simile manifestazione non poteva che trovarci pronti a partire alla volta della città eterna, per reclamare l'Italia che vorremmo, un'Italia che sappia garantire e pretendere giustizia, che non sacrifichi gli ideali e la dignità all'interesse economico. Quella che vogliamo è una nazione che torni a farsi Patria.

L'Italia dopo l'Italia. Il nostro Paese raccontato da Virgilio Ilari

L'Italia dopo l'Italia. La morte dello Stato italiano dal 1992 ad oggi.

Questo il titolo del primo incontro pubblico organizzato dal gruppo giovani del Comitato Trieste Pro Patria, che si è tenuto il 16 novembre presso la sala teatrale del santuario di Santa Maria Maggiore.
Relatore è stato il professor Virgilio Ilari, già docente di Storia delle istituzioni militari e dei sistemi di sicurezza all'Università Cattolica di Milano, presentato dal nostro Matteo. Figura di spicco del dibattito storico italiano, nonché per molti anni presidente della Società Italiana di Storia Militare, Ilari ha collaborato con l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, con l'Istituto Affari Internazionali e con varie riviste di approfondimento. È stato anche consulente del Centro Militare di Studi Strategici, della Commissione bicamerale di inchiesta sul terrorismo e le stragi ed ha collaborato con il Centro Alti Studi per la Difesa.
Ilari ha delineato la parabola discendente dello Stato italiano dal 1992 ad oggi. Il triennio 1991-1993 rappresenta, a suo dire, la morte dello Stato italiano soprattutto a causa di tre fattori, di tre momenti chiave: il trattato di Maastricht, l'inchiesta Mani Pulite, i referendum a carattere elettorale.
Interessante la teoria espressa dallo storico romano: i grandi partiti popolari (quali ad esempio DC, PCI e MSI) funsero da collanti per una Nazione ancora fortemente divisa dall'esperienza della seconda guerra mondiale e dagli anni del dopoguerra. Con la disaffezione da parte del popolo e la delegittimazione di questi organi di rappresentanza – che Ilari non assolve dalle loro colpe – in Italia è venuto meno il senso di una rappresentanza popolare che, oggi giorno, non viene minimamente percepito dai cittadini.
Ulteriore spunto di riflessione proposto da Ilari è stato lo scarto generazionale avvenuto nella stagione del Sessantotto: da una parte la generazione dei «nostri grandi vecchi», vissuti in un'epoca di grandi slanci politici (Fascismo, Resistenza, il Dopoguerra) dall'altra quella che Ilari, in un articolo dal titolo omonimo di questo incontro, non esita a definire come «quella che s'è mangiato tutto: ominicchi, donnacciole e quaqquaraquà incapaci di sopportare la durezza della vita e della libertà, che alla fine hanno venduto pure sé stessi e i propri discendenti gongolando “gajardo, 'arisemo schiavi”». Con disincanto lo stesso Ilari, in un simpatico intermezzo in romanesco esclama: «pure io, alla fine, che sono della stessa generazione, che ho fatto?».
E alla stessa generazione – per nascita sì, ma non per attitudine e qualità – apparteneva anche lo storico piranese Antonio Sema, grande amico di Ilari e ricordato a lungo in apertura di conferenza. Comunista ed esule istriano, ma fortemente convinto della propria identità nazionale, Sema rappresenta il simbolo di una stagione dove la contrapposizione politica poteva essere anche aspra, ma che non comprometteva la possibilità di un dialogo concreto e costruttivo tra ideologie diverse, proprio – a detta di Ilari – grazie a quel sistema di rappresentanza che aveva instillato nel popolo la certezza di essere parte di un corpus collettivo e di una comunità politico-sociale viva e vegeta.
Che cosa manca a questa Italia per riprendere e plasmare sul presente i valori che Ilari assurge come fondamentali per una coesione ideale? Due, a suo avviso, le motivazioni.
La prima, la perdita della duplice sovranità italiana: popolare, di cui abbiamo già fatto menzione, e nazionale. Continuamente pungolato dal pubblico presente su questo punto, Ilari non ha esitato a evidenziare la progressiva svendita del carattere nazionale di uno Stato in cui è soltanto l'apparato burocratico-amministrativo ad andare avanti. Inevitabili gli accenni all'Unione Europea, all'Euro, alle possibili soluzioni alternative, anche se, a essere onesti, Ilari non ha dato l'impressione di volersi schierare apertamente per l'alternativa antieuristica («non sono un esperto di economia»).
La seconda, lo svilimento e la celebrazione di maniera di qualsivoglia valore che possa in minima parte collegarsi all'idea di Patria. Marcette dei bersaglieri, obbligo di far cantare l’inno ai calciatori della Nazionale, sostituzione della Marcia di Radetzky del Concerto di Capodanno con l’Inno di Mameli e tutta una serie di iniziative partite dalla costruzione del centocinquantenario del’Unità d’Italia servono a instillare nei cittadini un senso profondo di amor patrio, di coinvolgimento ideale a un senso di comunità nazionale? Secondo Ilari, ma pure secondo il sottoscritto, assolutamente no. Anzi, non fanno altro che ridurre a folklore un sentimento ben più profondo dello sventolio di un tricolore durante i Mondiali di calcio. Oltre a legittimare istanze separatistiche, svuotando di ogni contenuto il sentire patriottico e a rendere estremamente sospetto e contraddittorio ogni sporadico richiamo istituzionale alla coesione nazionale.
Lorenzo Natural

mercoledì 6 novembre 2013

5 novembre 2013: Commemorazione dei caduti per l'italianità di Trieste del 1953.


Il 5 novembre, con la consueta entusiastica convinzione, abbiamo partecipato alla commemorazione dei sei triestini che persero la vita durante gli scontri con la Polizia Civile comandata da ufficiali inglesi, il 5 e 6 novembre del 1953. A 60 anni esatti da quei tragici giorni, alla luce del crollo di valori che contraddistingue la società odierna, siamo convinti che sia più che mai importante ricordare il sacrificio di Piero Addobbati, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia, Antonio Zavadil.
Nel ricordare quei giorni di novembre e nel cercare di capirli, non ci si può limitare alle spontanee manifestazioni da parte di tantissimi triestini ed alle dinamiche degli scontri di piazza, ma è corretto ampliare lo sguardo alla complicata congiuntura internazionale che proprio su Trieste faceva convergere tensioni e situazioni politiche di ben più ampio respiro. Inoltre, non può certo essere trascurato il ruolo esercitato dallo stato italiano e da quella jugoslavo, nell’influire sulla situazione triestina e nell'appoggiare in vario modo le parti in conflitto.
Dopo la morte di Stalin, la Jugoslavia aveva ulteriormente migliorato la sua posizione diplomatica, visto che gli americani la consideravano ormai un prezioso alleato, parte della linea difensiva europea di fronte al blocco sovietico. Forte di ciò, nel 1953 Tito si stava dimostrando più che mai intransigente nelle sue rivendicazioni, sia sull’annessione definitiva della zona B che su Trieste, probabilmente fomentato dai suoi ministri sloveni, visto che si trattava di garantire per il futuro l'unico possibile sbocco al mare sloveno. Nel discorso del 17 maggio, il dittatore jugoslavo agì d'astuzia, rintuzzando le accuse di imperialismo contro l'Italia, manifestando preoccupazione per la sorte degli sloveni di Trieste e rilanciando la massima rivendicazione: la città di Trieste. Dal lato opposto, Pella aveva preso il posto di De Gasperi alla guida del governo italiano ed aveva riscosso l'appoggio della destra parlamentare, anche annunciando la richiesta di attuazione della nota tripartita del 20 marzo 1948, che aveva ipotizzato la restituzione all'Italia dell'intero TLT.
In estate, la tensione toccò il culmine, con una dichiarazione di Tito sulla possibile annessione della zona B (secondo alcune fonti accentuata dall'agenzia statunitense United Press) cui Pella reagì inviando truppe in prossimità del confine, subito imitato da Belgrado. 
Fu poi Tito a irridere e sfidare gli italiani davanti a 250.000 persone con il discorso del 6 settembre a Sambasso, vicinissimo al confine goriziano, attribuendo le cause della tensione all’Italia e deridendone le potenzialità militari. L'8 ottobre inglesi e americani emanarono la nota bipartita, con cui ipotizzavano il loro ritiro dalla zona A in favore dell'Italia; in quel periodo, era ormai palese come gli alleati volessero porre fine al loro dispendioso impegno militare nella zona e stessero cercando di spingere Italia e Jugoslavia ad un accordo per una sistemazione definitiva. La nota, che sperava di calmare gli animi, ottenne invece l’effetto opposto, scatenando le proteste da parte jugoslava e violente ritorsioni contro gli italiani della zona B. Tito affermò che l'ingresso delle truppe italiane in zona A sarebbe stato considerato un atto di guerra contro la Jugoslavia, che in tal caso sarebbe intervenuta militarmente a Trieste. Per meglio comprendere l'agitazione che si viveva in città e lo scardinamento degli schemi politici tradizionali, basti pensare che lo stesso partito comunista triestino, per bocca del suo capo Vidali, parlò di circa 2.000 infiltrati jugoslavi in zona A per provocare disordini; fu sempre Vidali a dichiarare i comunisti triestini (in maggioranza “stalinisti” e quindi schierati contro Tito dopo il 1948) pronti a combattere in caso di invasione jugoslava.
L'autunno triestino era ormai incandescente: si organizzarono gruppi di cittadini pronti alla difesa, in parte spontanei e in parte espressione di vari partiti; anche il governo italiano, in accordo con esponenti politici locali, pianificò una difesa, finalizzata in particolare a fronteggiare possibili colpi di mano jugoslavi durante l’eventuale delicato periodo di passaggio di consegne, in caso la nota bipartita fosse stata messa in atto. A tal fine, l'esercito organizzò in gran segreto dei campi di addestramento militare in Friuli, che ospitarono per qualche giorno molti giovani volontari triestini. I documenti e le testimonianze fanno pensare, se non a un esplicito accordo, almeno alla conoscenza di tutto questo da parte del GMA.
In città certamente giravano delle armi, cosa non difficile a pochi anni dalla fine della guerra; delle altre vennero richieste da Diego De Castro al governo italiano, ma anche queste in funzione anti jugoslava e non certo contro gli alleati; un certo quantitativo fu effettivamente inviato dal Ministro Taviani, col fine di affidarle a gruppi di partigiani italiani coordinati dal reduce della Resistenza Martini Mauri, sempre in caso di invasione dell'esercito di Tito.
In più, va ricordato l’invio di fondi da parte dell’Italia, che caratterizzò buona parte del periodo di Governo Militare Alleato, distribuiti soprattutto attraverso il Comitato per la difesa dell’italianità di Trieste e dell’Istria, fondi che furono utilizzati in particolare per iniziative di propaganda.
Il governo italiano ebbe quindi un ruolo attivo in quel periodo caldo ed è inevitabile pensare che alcuni esponenti politici agirono semplicemente per rispondere alle richieste di aiuto che arrivavano dagli italiani di Trieste, mentre altri furono probabilmente spinti da interessi politico-elettorali, anche considerando l'emozione che la questione triestina stava suscitando in Patria.
Rispetto agli scenari descritti, è fuorviante la faziosa interpretazione di alcuni, ambienti, secondo i quali le manifestazioni per l’italianità di Trieste furono artificialmente indotte ed organizzate dall’Italia e l’entusiasmo dei triestini per il ricongiungimento alla Patria sarebbe un mito costruito ad arte dalla cultura ufficiale; è ben documentata, infatti, l’attiva e spontanea partecipazione della grande maggioranza dei triestini, elemento suffragato da copiose testimonianze, oltre che da documenti italiani ed alleati. Certamente va riconosciuto che, in parte durante i moti del ’53 ed ancor più nei festeggiamenti dell’ottobre ’54, arrivò anche molta gente da fuori, nella maggior parte dei casi spontaneamente, vista la viva emozione ed il risalto mediatico che la causa di Trieste aveva sollevato in tutta la nazione. Per farsi un’idea di chi fossero e da dove provenissero i protagonisti delle manifestazioni del novembre 1953, un buon indicatore si trova nella lista dei feriti accertati, cioè di coloro che fecero ricorso alle cure mediche. Un documento tratto dall’archivio della Lega Nazionale e pubblicato 10 anni fa stila un elenco di 113 nominativi: su 89 persone di cui è riportato l’indirizzo, 83 risultavano residenti a Trieste; su altri 20 di cui è riportato solo il luogo di nascita, 12 risultavano nati a Trieste.
In tale intricato contesto, furono i vertici militari inglesi a completare i presupposti dei più gravi incidenti, con una netta chiusura alle manifestazioni filo italiane ed in particolare col divieto di esporre il tricolore, proprio in un periodo denso di anniversari dalla potente carica simbolica (3 e 4 novembre). 
I vertici del GMA ed in particolare il generale Winterton erano molto diffidenti rispetto alle azioni del governo italiano, di cui si temeva un utilizzo spregiudicato degli scontri di piazza, se non addirittura un colpo di mano in stile dannunziano; si parlò più volte anche del presunto invio di “provocatori”, un vero spauracchio agitato però anche dalle altre parti in causa. Molti, ancor oggi, interpretano tale comportamento come retaggio della tradizionale avversione inglese verso l’Italia, oltre che con la velata simpatia che i britannici nutrivano per le istanze jugoslave, fin dal 1939-40, già prima del coinvolgimento balcanico nel secondo conflitto mondiale. I manifestanti triestini, in più, erano indispettiti verso gli inglesi anche per gli incidenti del 20 marzo 1952, quando la polizia aveva attaccato e cercato di disperdere i manifestanti con gli idranti. Più bonariamente erano visti invece gli americani, che non palesavano manifestamente tendenze filo slave e non parteciparono agli scontri coi manifestanti. I rapporti con gli inglesi erano poi ulteriormente peggiorati con il sequestro della bandiera italiana che il sindaco Bartoli aveva voluto esporre sul municipio il 3 novembre, lo scioglimento di due manifestazioni italiane lo stesso giorno, con la requisizione di altre bandiere ed i primi tafferugli tra manifestanti e polizia. La situazione iniziò a precipitare il 4 novembre, quando si riunì sulle rive un imponente corteo, in parte formato da persone rientrate dalle celebrazioni di Redipuglia, che marciò verso piazza Unità deciso a porre nuovamente il tricolore sul palazzo del Comune. Dall’opposizione della polizia civile sorsero i più violenti tumulti che durarono 3 giorni, con il nefasto esito ben noto.
E’ importante sottolineare come il 4 novembre fece la prima comparsa il famigerato Nucleo Mobile, sulla cui composizione giravano voci inquietanti, ma che in ogni caso era stato addestrato per reprimere gli scontri di piazza e che si segnalò per un comportamento determinato e spesso spregiudicato. Dopo il ritorno alla normalità, da più parti ed anche per bocca del sindaco, si ebbe la tendenza a distinguere le responsabilità della maggior parte degli agenti della Polizia Civile (in maggioranza triestini privi di avversità verso i manifestanti) da quelle di pochi ispettori, degli ufficiali inglesi che li dirigevano e del Nucleo Mobile in generale. In effetti, diverse testimonianze (una delle quali riportata dallo studioso Diego de Henriquez) riferirono che ufficiali inglesi ed elementi italiani del Nucleo Mobile minacciarono agenti della Polizia Civile affinché sparassero sulla folla. Un tanto è confermato anche da un rapporto inviato da un informatore locale all’Ufficio Zone di Confine (presso il governo italiano) che testimoniò l’intimazione data da alcuni agenti di sparare mirando i manifestanti dalle finestre e dal terrazzo della Prefettura, in piazza Unità. Le autorità inglesi dichiararono che, in tutto, furono sparati circa 100 colpi, nel tentativo di dimostrare che si trattò di un mero tentativo di difesa o di dissuasione, da parte degli agenti. I giorni seguenti, evidentemente, più di qualche agente decise di prendere le distanze dal comportamento di alcuni: 6 allievi, 6 dipendenti e 47 guardie della Polizia Civile decisero di dimettersi.
Il resto fa parte della cronaca, già esposta da molte opere editoriali e siti internet, con gli scontri del 4 novembre al rientro dei triestini che si erano recati a Redipuglia, la sottrazione di tricolori ai manifestanti, il sequestro della bandiera italiana esposta sul palazzo comunale, i mortali scontri del 5 in piazza Sant’Antonio e del 6 in Piazza Unità.
Concludendo, tutto il contesto delineato ed altre situazioni non approfondite per motivi di spazio vanno certamente considerati per una corretta comprensione di quegli eventi. Il contesto internazionale ed i retroscena politici certamente non sminuiscono il genuino slancio di migliaia di triestini, che in quei giorni manifestavano spontaneamente per la loro italianità a prescindere da certe dinamiche diplomatiche ed interessi politici.

Bibliografia:
De Castro, La questione di Trieste, Lint, Trieste, 1981,
AAVV, I ragazzi del '53, Italo Svevo, Trieste, 2003,
AAVV, La sconfitta rimossa - A sessant'anni dal Trattato di Pace, Italo Svevo, 2007
Tombesi (a cura di), 1945 - 1954 Moti giovanili per Trieste italiana all'epoca del GMA, Del Bianco, Udine, 2005