Il 5 novembre, con la consueta entusiastica convinzione, abbiamo partecipato alla commemorazione dei sei triestini che persero la vita durante gli scontri con la Polizia Civile comandata da ufficiali inglesi, il 5 e 6 novembre del 1953. A 60 anni esatti da quei tragici giorni, alla luce del crollo di valori che contraddistingue la società odierna, siamo convinti che sia più che mai importante ricordare il sacrificio di Piero Addobbati, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia, Antonio Zavadil.
Nel ricordare quei giorni di novembre e nel cercare di capirli, non ci si può limitare alle spontanee manifestazioni da parte di tantissimi triestini ed alle dinamiche degli scontri di piazza, ma è corretto ampliare lo sguardo alla complicata congiuntura internazionale che proprio su Trieste faceva convergere tensioni e situazioni politiche di ben più ampio respiro. Inoltre, non può certo essere trascurato il ruolo esercitato dallo stato italiano e da quella jugoslavo, nell’influire sulla situazione triestina e nell'appoggiare in vario modo le parti in conflitto.
Dopo la morte di Stalin, la Jugoslavia aveva ulteriormente migliorato la sua posizione diplomatica, visto che gli americani la consideravano ormai un prezioso alleato, parte della linea difensiva europea di fronte al blocco sovietico. Forte di ciò, nel 1953 Tito si stava dimostrando più che mai intransigente nelle sue rivendicazioni, sia sull’annessione definitiva della zona B che su Trieste, probabilmente fomentato dai suoi ministri sloveni, visto che si trattava di garantire per il futuro l'unico possibile sbocco al mare sloveno. Nel discorso del 17 maggio, il dittatore jugoslavo agì d'astuzia, rintuzzando le accuse di imperialismo contro l'Italia, manifestando preoccupazione per la sorte degli sloveni di Trieste e rilanciando la massima rivendicazione: la città di Trieste. Dal lato opposto, Pella aveva preso il posto di De Gasperi alla guida del governo italiano ed aveva riscosso l'appoggio della destra parlamentare, anche annunciando la richiesta di attuazione della nota tripartita del 20 marzo 1948, che aveva ipotizzato la restituzione all'Italia dell'intero TLT.
In estate, la tensione toccò il culmine, con una dichiarazione di Tito sulla possibile annessione della zona B (secondo alcune fonti accentuata dall'agenzia statunitense United Press) cui Pella reagì inviando truppe in prossimità del confine, subito imitato da Belgrado.
Fu poi Tito a irridere e sfidare gli italiani davanti a 250.000 persone con il discorso del 6 settembre a Sambasso, vicinissimo al confine goriziano, attribuendo le cause della tensione all’Italia e deridendone le potenzialità militari.
L'8 ottobre inglesi e americani emanarono la nota bipartita, con cui ipotizzavano il loro ritiro dalla zona A in favore dell'Italia; in quel periodo, era ormai palese come gli alleati volessero porre fine al loro dispendioso impegno militare nella zona e stessero cercando di spingere Italia e Jugoslavia ad un accordo per una sistemazione definitiva. La nota, che sperava di calmare gli animi, ottenne invece l’effetto opposto, scatenando le proteste da parte jugoslava e violente ritorsioni contro gli italiani della zona B. Tito affermò che l'ingresso delle truppe italiane in zona A sarebbe stato considerato un atto di guerra contro la Jugoslavia, che in tal caso sarebbe intervenuta militarmente a Trieste. Per meglio comprendere l'agitazione che si viveva in città e lo scardinamento degli schemi politici tradizionali, basti pensare che lo stesso partito comunista triestino, per bocca del suo capo Vidali, parlò di circa 2.000 infiltrati jugoslavi in zona A per provocare disordini; fu sempre Vidali a dichiarare i comunisti triestini (in maggioranza “stalinisti” e quindi schierati contro Tito dopo il 1948) pronti a combattere in caso di invasione jugoslava.
L'autunno triestino era ormai incandescente: si organizzarono gruppi di cittadini pronti alla difesa, in parte spontanei e in parte espressione di vari partiti; anche il governo italiano, in accordo con esponenti politici locali, pianificò una difesa, finalizzata in particolare a fronteggiare possibili colpi di mano jugoslavi durante l’eventuale delicato periodo di passaggio di consegne, in caso la nota bipartita fosse stata messa in atto.
A tal fine, l'esercito organizzò in gran segreto dei campi di addestramento militare in Friuli, che ospitarono per qualche giorno molti giovani volontari triestini. I documenti e le testimonianze fanno pensare, se non a un esplicito accordo, almeno alla conoscenza di tutto questo da parte del GMA.
In città certamente giravano delle armi, cosa non difficile a pochi anni dalla fine della guerra; delle altre vennero richieste da Diego De Castro al governo italiano, ma anche queste in funzione anti jugoslava e non certo contro gli alleati; un certo quantitativo fu effettivamente inviato dal Ministro Taviani, col fine di affidarle a gruppi di partigiani italiani coordinati dal reduce della Resistenza Martini Mauri, sempre in caso di invasione dell'esercito di Tito.
In più, va ricordato l’invio di fondi da parte dell’Italia, che caratterizzò buona parte del periodo di Governo Militare Alleato, distribuiti soprattutto attraverso il Comitato per la difesa dell’italianità di Trieste e dell’Istria, fondi che furono utilizzati in particolare per iniziative di propaganda.
Il governo italiano ebbe quindi un ruolo attivo in quel periodo caldo ed è inevitabile pensare che alcuni esponenti politici agirono semplicemente per rispondere alle richieste di aiuto che arrivavano dagli italiani di Trieste, mentre altri furono probabilmente spinti da interessi politico-elettorali, anche considerando l'emozione che la questione triestina stava suscitando in Patria.
Rispetto agli scenari descritti, è fuorviante la faziosa interpretazione di alcuni, ambienti, secondo i quali le manifestazioni per l’italianità di Trieste furono artificialmente indotte ed organizzate dall’Italia e l’entusiasmo dei triestini per il ricongiungimento alla Patria sarebbe un mito costruito ad arte dalla cultura ufficiale; è ben documentata, infatti, l’attiva e spontanea partecipazione della grande maggioranza dei triestini, elemento suffragato da copiose testimonianze, oltre che da documenti italiani ed alleati. Certamente va riconosciuto che, in parte durante i moti del ’53 ed ancor più nei festeggiamenti dell’ottobre ’54, arrivò anche molta gente da fuori, nella maggior parte dei casi spontaneamente, vista la viva emozione ed il risalto mediatico che la causa di Trieste aveva sollevato in tutta la nazione. Per farsi un’idea di chi fossero e da dove provenissero i protagonisti delle manifestazioni del novembre 1953, un buon indicatore si trova nella lista dei feriti accertati, cioè di coloro che fecero ricorso alle cure mediche. Un documento tratto dall’archivio della Lega Nazionale e pubblicato 10 anni fa stila un elenco di 113 nominativi: su 89 persone di cui è riportato l’indirizzo, 83 risultavano residenti a Trieste; su altri 20 di cui è riportato solo il luogo di nascita, 12 risultavano nati a Trieste.
In tale intricato contesto, furono i vertici militari inglesi a completare i presupposti dei più gravi incidenti, con una netta chiusura alle manifestazioni filo italiane ed in particolare col divieto di esporre il tricolore, proprio in un periodo denso di anniversari dalla potente carica simbolica (3 e 4 novembre).
I vertici del GMA ed in particolare il generale Winterton erano molto diffidenti rispetto alle azioni del governo italiano, di cui si temeva un utilizzo spregiudicato degli scontri di piazza, se non addirittura un colpo di mano in stile dannunziano; si parlò più volte anche del presunto invio di “provocatori”, un vero spauracchio agitato però anche dalle altre parti in causa.
Molti, ancor oggi, interpretano tale comportamento come retaggio della tradizionale avversione inglese verso l’Italia, oltre che con la velata simpatia che i britannici nutrivano per le istanze jugoslave, fin dal 1939-40, già prima del coinvolgimento balcanico nel secondo conflitto mondiale. I manifestanti triestini, in più, erano indispettiti verso gli inglesi anche per gli incidenti del 20 marzo 1952, quando la polizia aveva attaccato e cercato di disperdere i manifestanti con gli idranti. Più bonariamente erano visti invece gli americani, che non palesavano manifestamente tendenze filo slave e non parteciparono agli scontri coi manifestanti. I rapporti con gli inglesi erano poi ulteriormente peggiorati con il sequestro della bandiera italiana che il sindaco Bartoli aveva voluto esporre sul municipio il 3 novembre, lo scioglimento di due manifestazioni italiane lo stesso giorno, con la requisizione di altre bandiere ed i primi tafferugli tra manifestanti e polizia. La situazione iniziò a precipitare il 4 novembre, quando si riunì sulle rive un imponente corteo, in parte formato da persone rientrate dalle celebrazioni di Redipuglia, che marciò verso piazza Unità deciso a porre nuovamente il tricolore sul palazzo del Comune. Dall’opposizione della polizia civile sorsero i più violenti tumulti che durarono 3 giorni, con il nefasto esito ben noto.
E’ importante sottolineare come il 4 novembre fece la prima comparsa il famigerato Nucleo Mobile, sulla cui composizione giravano voci inquietanti, ma che in ogni caso era stato addestrato per reprimere gli scontri di piazza e che si segnalò per un comportamento determinato e spesso spregiudicato. Dopo il ritorno alla normalità, da più parti ed anche per bocca del sindaco, si ebbe la tendenza a distinguere le responsabilità della maggior parte degli agenti della Polizia Civile (in maggioranza triestini privi di avversità verso i manifestanti) da quelle di pochi ispettori, degli ufficiali inglesi che li dirigevano e del Nucleo Mobile in generale.
In effetti, diverse testimonianze (una delle quali riportata dallo studioso Diego de Henriquez) riferirono che ufficiali inglesi ed elementi italiani del Nucleo Mobile minacciarono agenti della Polizia Civile affinché sparassero sulla folla. Un tanto è confermato anche da un rapporto inviato da un informatore locale all’Ufficio Zone di Confine (presso il governo italiano) che testimoniò l’intimazione data da alcuni agenti di sparare mirando i manifestanti dalle finestre e dal terrazzo della Prefettura, in piazza Unità. Le autorità inglesi dichiararono che, in tutto, furono sparati circa 100 colpi, nel tentativo di dimostrare che si trattò di un mero tentativo di difesa o di dissuasione, da parte degli agenti. I giorni seguenti, evidentemente, più di qualche agente decise di prendere le distanze dal comportamento di alcuni: 6 allievi, 6 dipendenti e 47 guardie della Polizia Civile decisero di dimettersi.
Il resto fa parte della cronaca, già esposta da molte opere editoriali e siti internet, con gli scontri del 4 novembre al rientro dei triestini che si erano recati a Redipuglia, la sottrazione di tricolori ai manifestanti, il sequestro della bandiera italiana esposta sul palazzo comunale, i mortali scontri del 5 in piazza Sant’Antonio e del 6 in Piazza Unità.
Concludendo, tutto il contesto delineato ed altre situazioni non approfondite per motivi di spazio vanno certamente considerati per una corretta comprensione di quegli eventi. Il contesto internazionale ed i retroscena politici certamente non sminuiscono il genuino slancio di migliaia di triestini, che in quei giorni manifestavano spontaneamente per la loro italianità a prescindere da certe dinamiche diplomatiche ed interessi politici.
Bibliografia:
De Castro, La questione di Trieste, Lint, Trieste, 1981,
AAVV, I ragazzi del '53, Italo Svevo, Trieste, 2003,
AAVV, La sconfitta rimossa - A sessant'anni dal Trattato di Pace, Italo Svevo, 2007
Tombesi (a cura di), 1945 - 1954 Moti giovanili per Trieste italiana all'epoca del GMA, Del Bianco, Udine, 2005