lunedì 25 novembre 2013

L'Italia dopo l'Italia. Il nostro Paese raccontato da Virgilio Ilari

L'Italia dopo l'Italia. La morte dello Stato italiano dal 1992 ad oggi.

Questo il titolo del primo incontro pubblico organizzato dal gruppo giovani del Comitato Trieste Pro Patria, che si è tenuto il 16 novembre presso la sala teatrale del santuario di Santa Maria Maggiore.
Relatore è stato il professor Virgilio Ilari, già docente di Storia delle istituzioni militari e dei sistemi di sicurezza all'Università Cattolica di Milano, presentato dal nostro Matteo. Figura di spicco del dibattito storico italiano, nonché per molti anni presidente della Società Italiana di Storia Militare, Ilari ha collaborato con l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, con l'Istituto Affari Internazionali e con varie riviste di approfondimento. È stato anche consulente del Centro Militare di Studi Strategici, della Commissione bicamerale di inchiesta sul terrorismo e le stragi ed ha collaborato con il Centro Alti Studi per la Difesa.
Ilari ha delineato la parabola discendente dello Stato italiano dal 1992 ad oggi. Il triennio 1991-1993 rappresenta, a suo dire, la morte dello Stato italiano soprattutto a causa di tre fattori, di tre momenti chiave: il trattato di Maastricht, l'inchiesta Mani Pulite, i referendum a carattere elettorale.
Interessante la teoria espressa dallo storico romano: i grandi partiti popolari (quali ad esempio DC, PCI e MSI) funsero da collanti per una Nazione ancora fortemente divisa dall'esperienza della seconda guerra mondiale e dagli anni del dopoguerra. Con la disaffezione da parte del popolo e la delegittimazione di questi organi di rappresentanza – che Ilari non assolve dalle loro colpe – in Italia è venuto meno il senso di una rappresentanza popolare che, oggi giorno, non viene minimamente percepito dai cittadini.
Ulteriore spunto di riflessione proposto da Ilari è stato lo scarto generazionale avvenuto nella stagione del Sessantotto: da una parte la generazione dei «nostri grandi vecchi», vissuti in un'epoca di grandi slanci politici (Fascismo, Resistenza, il Dopoguerra) dall'altra quella che Ilari, in un articolo dal titolo omonimo di questo incontro, non esita a definire come «quella che s'è mangiato tutto: ominicchi, donnacciole e quaqquaraquà incapaci di sopportare la durezza della vita e della libertà, che alla fine hanno venduto pure sé stessi e i propri discendenti gongolando “gajardo, 'arisemo schiavi”». Con disincanto lo stesso Ilari, in un simpatico intermezzo in romanesco esclama: «pure io, alla fine, che sono della stessa generazione, che ho fatto?».
E alla stessa generazione – per nascita sì, ma non per attitudine e qualità – apparteneva anche lo storico piranese Antonio Sema, grande amico di Ilari e ricordato a lungo in apertura di conferenza. Comunista ed esule istriano, ma fortemente convinto della propria identità nazionale, Sema rappresenta il simbolo di una stagione dove la contrapposizione politica poteva essere anche aspra, ma che non comprometteva la possibilità di un dialogo concreto e costruttivo tra ideologie diverse, proprio – a detta di Ilari – grazie a quel sistema di rappresentanza che aveva instillato nel popolo la certezza di essere parte di un corpus collettivo e di una comunità politico-sociale viva e vegeta.
Che cosa manca a questa Italia per riprendere e plasmare sul presente i valori che Ilari assurge come fondamentali per una coesione ideale? Due, a suo avviso, le motivazioni.
La prima, la perdita della duplice sovranità italiana: popolare, di cui abbiamo già fatto menzione, e nazionale. Continuamente pungolato dal pubblico presente su questo punto, Ilari non ha esitato a evidenziare la progressiva svendita del carattere nazionale di uno Stato in cui è soltanto l'apparato burocratico-amministrativo ad andare avanti. Inevitabili gli accenni all'Unione Europea, all'Euro, alle possibili soluzioni alternative, anche se, a essere onesti, Ilari non ha dato l'impressione di volersi schierare apertamente per l'alternativa antieuristica («non sono un esperto di economia»).
La seconda, lo svilimento e la celebrazione di maniera di qualsivoglia valore che possa in minima parte collegarsi all'idea di Patria. Marcette dei bersaglieri, obbligo di far cantare l’inno ai calciatori della Nazionale, sostituzione della Marcia di Radetzky del Concerto di Capodanno con l’Inno di Mameli e tutta una serie di iniziative partite dalla costruzione del centocinquantenario del’Unità d’Italia servono a instillare nei cittadini un senso profondo di amor patrio, di coinvolgimento ideale a un senso di comunità nazionale? Secondo Ilari, ma pure secondo il sottoscritto, assolutamente no. Anzi, non fanno altro che ridurre a folklore un sentimento ben più profondo dello sventolio di un tricolore durante i Mondiali di calcio. Oltre a legittimare istanze separatistiche, svuotando di ogni contenuto il sentire patriottico e a rendere estremamente sospetto e contraddittorio ogni sporadico richiamo istituzionale alla coesione nazionale.
Lorenzo Natural